L’Omosessualità può essere definita come quell’orientamento sessuale in cui una persona è attratta affettivamente, romanticamente, emozionalmente e sessualmente da un individuo dello stesso sesso. E’ quindi una condizione esistenziale con forti contenuti di affettività, relazione e progettualità. Comunemente si utilizza il termine gay quando il rapporto affettivo e sessuale è tra due uomini ed il termine lesbica quando il rapporto affettivo e sessuale è tra due donne, mentre con il termine bisessuale ci si riferisce a tutte quelle persone che provano attrazione sessuale e sentimentale sia per persone dell’altro che del proprio stesso sesso. Secondo l’American Psychological Association (APA), inoltre, in linea generale “l’orientamento sessuale si riferisce a un modello stabile di attrazione emotiva, romantica e/o sessuale verso gli uomini, le donne, o entrambi i sessi”. Un elemento importantissimo da notare in questa definizione, quindi, è che l’orientamento sessuale è un orientamento verso un sesso (maschile, femminile o entrambi) espresso in termini di attrazione emotiva, romantica e/o sessuale. Entrando nello specifico, quindi, una persona omosessuale è attratta affettivamente, romanticamente e sessualmente da un individuo dello stesso sesso. Si evidenza questo aspetto poiché talvolta la parola “omosessuale” può trarre in inganno, richiamando l’attenzione sul solo elemento della sessualità e trascurando le componenti emotive, affettive, relazionali e romantiche che sono, invece, parte integrante dell’orientamento sessuale. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) inoltre, nel 1990 definisce finalmente l’omosessualità come “una variante naturale del comportamento umano che comporta l’attrazione sentimentale e/o sessuale verso individui dello stesso sesso”. Più recentemente, nel 2009, sempre per quanto concerne l’omosessualità, l’American Psychological Association (APA) ha affermato che “le attrazioni, i comportamenti e gli orientamenti sessuali verso persone dello stesso sesso sono di per sé normali e positive varianti della sessualità umana – in altre parole, non indicano disturbi mentali o evolutivi “. Va con vigore sottolineato, dunque, come l’omosessualità non sia una malattia, ma semplicemente una variante normale e naturale del comportamento e dell’orientamento sessuale umano.
Da tempo immemore la persona omosessuale è stata stigmatizzata da più e più forze: come un lascivo peccatore dalla religione, poi come un abietto criminale dalla giurisprudenza ed infine come un malato da curare con l’ausilio della medicina (basti pensare che la medicina della metà del 1800 addirittura riteneva che ci fossero delle anormalità nel pene e nell’ano degli omosessuali). La logica era stringente: ciò che era diverso dalla norma era anormale, dunque patologico. Questa ‘anormalità’ non era riscontrata nelle donne in quanto fino al XX° secolo risultava inconcepibile anche solo immaginare che la donna potesse avere una propria sessualità, ed era dunque impensabile che anche le donne potessero essere omosessuali. Tra l’altro, la parola stessa ‘omosessualità’ è relativamente recente; sarà infatti il giornalista ungherese Karoly Maria Kertbeny nel 1869 ad utilizzare per primo il termine “omosessualità”, usandolo in un trattato nel quale si opponeva fortemente alla legge prussiana dell’epoca che condannava l’omosessualità come un crimine.
Il movimento omosessuale internazionale, che cominciò con forza a costituirsi dopo la Seconda Guerra Mondiale con l’obiettivo di rivendicare diritti negati ad una minoranza, favorì e diffuse l’utilizzo della parola gay. Il termine gay, inizialmente entrato in uso per definire gli uomini omosessuali, viene oramai spesso utilizzato come sinonimo della parola omosessuale ed è sempre più frequentemente usato anche per parlare di donne omosessuali, soprattutto nei Paesi di lingua anglosassone. In Italia, invece, per identificare una donna omosessuale, come abbiamo visto viene utilizzato generalmente il termine lesbica (il cui nome deriva dall’isola di Lesbo dove risiedeva la poetessa Saffo che decantava in versi l’amore tra donne). Se da un lato l’omosessualità maschile e quella femminile sono state entrambe condannate in quanto esprimevano il desiderio di una sessualità non procreativa, quindi non finalizzata alla nascita di una nuova vita, la situazione delle donne omosessuali era aggravata anche dalla condizione di inferiorità sociale femminile. La lotta per la liberazione omosessuale delle donne lesbiche, quindi, venne condotta parallelamente a quelle del movimento femminista. Le donne omosessuali italiane, allora, scelsero il termine lesbica per definirsi in modo differente rispetto agli uomini gay, con l’intento di non dimenticare la doppia lotta di liberazione che dovettero sostenere, prima per emergere come donne, in un ambiente patriarcale e maschilista che quasi le annullava, e poi come persone omosessuali.
Tutti gli Ordini degli Psicologi delle varie Regioni italiane, va sottolineato, hanno comunque più volte ribadito come l’omosessualità non sia una malattia, e che ritengano gravissime e da respingere le affermazioni diverse da questa. La comunità scientifica internazionale, inoltre, ha da tempo rigettato con forza e vigore le cosiddette terapie di conversione e riparative (vale a dire quelle offensive e pericolose terapie che cercano di far cambiare l’orientamento sessuale di una persona omosessuale) e in un comunicato del 2010 il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi (CNOP) ha sottolineato come tali terapie non solo incentivino il pregiudizio anti-omosessuale, ma “screditano le nostre professioni e delegittimano il nostro impegno per l’affermazione di una visione scientifica dell’omosessualità”. Un doveroso ed utile approccio psicoterapeutico, invece, dovrebbe aiutare la persona omosessuale ad accettare serenamente il proprio orientamento sessuale e ad integrare pienamente tale orientamento all’interno della propria personalità, sviluppando in tal modo una positiva immagine di sé stesso e superando i pregiudizi anti-gay instillati in lui dalla società.
Per quanto riguarda l’origine dell’omosessualità, poi, esistono diverse ipotesi: alcune la vorrebbero principalmente legata all’influenza dell’ambiente sociale ed affettivo in cui crescono i bambini, mentre altre ipotesi trovano la loro genesi in “cause” biologiche come l’influenza di ormoni o dei fattori genetici. Oggi a livello internazionale c’è un comune accordo nel ritenere che l’orientamento sessuale sia il risultato di una combinazione complessa di fattori psicologici, biologici, sociali e culturali. Si parla, infatti, di un processo di sviluppo e acquisizione di un orientamento sessuale che può essere di tipo eterosessuale, omosessuale o bisessuale. L’orientamento sessuale si sviluppa, quindi, con le influenze dei rapporti affettivi significativi (con i genitori ed altre persone), dell’ambiente sociale, di quello educativo e delle caratteristiche biologiche predisponenti.
La consapevolezza di essere omosessuali, inoltre, può essere acquisita in età e in fasi diverse della vita di ciascuna persona. Quello che si può dire con certezza, e che emerge dalle storie delle persone, è che essere omosessuali è un modo di stare al mondo, di esistere, così come lo è per le persone eterosessuali. Ciò che varia è il tipo di percorso che ciascuno compie verso la consapevolezza di esserlo e l’età in cui se ne diventa pienamente consapevoli. Difatti, se ci sono uomini e donne che raccontano di averlo saputo sin dalla infanzia della loro omosessualità, per altri la consapevolezza viene acquisita in età più avanzata, durante l’adolescenza o l’età adulta, oppure a volte dopo un matrimonio duraturo e dopo avere avuto figli con un partner eterosessuale. Le persone omosessuali, a differenza di quelle eterosessuali, quindi, devono compiere quasi sempre un difficile percorso verso la consapevolezza poiché l’ambiente in cui nascono e crescono è culturalmente caratterizzato da una mentalità eterosessista, che considera l’orientamento eterosessuale l’unico modo di esistere possibile.
Con il termine coming out, inoltre, ci si riferisce al processo attraverso cui le persone gay, lesbiche o bisessuali scelgono di rivelare il proprio orientamento sessuale alle altre persone, amici, familiari, colleghi di lavoro e così via (esso non va confuso con il termine outing, utilizzato invece per identificare il processo negativo attraverso cui una persona comunica a qualcuno l’orientamento sessuale di qualcun altro). L’espressione “coming out” deriva da un’espressione inglese più ampia, “coming out of the closet”, che letteralmente significa “uscire dall’armadio”, vale a dire “uscire allo scoperto”. È un processo, questo, che presenta diversi stadi, dalla rivelazione a una sola persona o a pochi intimi, fino all’apertura totale rispetto al proprio orientamento, che dovrebbe portare ad un pieno sviluppo di un’identità sessuale integrata. Molte persone, invece, faticano a identificarsi come omosessuali, prima di tutto con sé stesse, per via dei pregiudizi omofobici presenti nella società. Per tale motivo, si può dire che il primo coming out è quello che si fa verso sé stessi, senza il quale non sarebbero possibili tutti gli altri coming out “esterni”. È un processo, questo, che nasce a partire da una presa di consapevolezza circa le proprie emozioni, i propri vissuti interiori e la propria attrazione verso una persona del proprio stesso sesso; fare coming out, quindi, non vuol dire esclusivamente intraprendere un processo di comunicazione esteriore, ma significa affermare profondamente la propria identità, in primis a sé stessi, e successivamente agli altri significativi.
Una volta che questa auto-identificazione è avvenuta, molti tendono a non comunicarlo all’esterno, o almeno a tenerlo riservato in certi ambiti, per paura di essere danneggiati da questa rivelazione. È il caso, ad esempio, di adolescenti appartenenti a famiglie molto rigide che possono temere di essere puniti o di essere controllati dai genitori, oppure di persone che lavorano in ambienti molto conservatori, che possono aver paura di essere licenziati o di subire atti di mobbing. La scelta di fare coming out, quindi, non è chiaramente indipendente da fattori culturali, ambientali ed anche personali delle persone gay, lesbiche e bisessuali. Ad esempio, l’orientamento politico conservatore e un ambiente molto religioso sono stati identificati come dei forti ostacoli al coming out all’interno della famiglia. Al contrario, l’avere degli amici gay o delle amiche lesbiche e l’avere già una relazione stabile, sono considerati dei fattori facilitanti rispetto alla scelta di fare coming out in famiglia oppure all’esterno da essa. Infine anche l’omofobia interiorizzata, ovvero l‘insieme di atteggiamenti, emozioni e pensieri negativi verso l’omosessualità che le stesse persone gay e lesbiche hanno interiorizzato dalla società, è stata identificata come un fattore fondamentale nella scelta di fare o meno coming out con i propri genitori e con le persone vicine. In particolare, si è osservato che gli individui con alti livelli di omofobia interiorizzata sono meno propensi nel fare coming out ai membri della propria famiglia e delle persone vicine, rispetto alle persone con bassi livelli di omofobia interiorizzata. L’accettazione e l’integrazione dell’identità omosessuale all’interno della propria vita, va sottolineato, favorisce il benessere personale e la salute sia psichica che fisica. Esattamente come gli eterosessuali, anche gay, lesbiche e bisessuali traggono enorme beneficio dal condividere apertamente le proprie vite e dal ricevere sostegno da parte di parenti, amici e conoscenti; in presenza di simili situazioni contestuali, infatti, si sono riscontrati ad esempio un aumento dell’autostima, della qualità della vita e della soddisfazione a lavoro, una riduzione dei livelli di ansia, di depressione, di rabbia e del senso di solitudine, ed un concomitante aumento della resilienza (vale a dire le capacità di fronteggiare lo stress e le difficoltà) e delle risorse di coping (vale a dire la capacità di adattamento). Di contro, vi sono numerosi studi che hanno evidenziato una stretta correlazione tra il tenere nascosta la propria identità sessuale e la maggiore comparsa di sintomi psicosomatici come il mal di testa, i tremori, lo scarso appetito, la perdita di peso, la tachicardia, i disturbi del sonno, le vertigini, fino a vere e proprie patologie fisiche come bronchiti oppure sinusiti.
Infine, va aggiunto che il termine omofobia è entrato in uso dal 1972 per definire il timore e l’odio irrazionale che alcune persone eterosessuali provavano nei confronti degli omosessuali. Oggi tale termine viene utilizzato per indicare il disagio, la svalutazione e l’avversione nei confronti delle persone omosessuali e dell’omosessualità in generale, e le azioni di ostilità che da ciò ne conseguono. Di recente, al posto di omofobia, è entrata maggiormente in uso la parola omonegatività per tener conto di quanto siano importanti i valori, le regole, i pensieri dominanti della società nel determinare il disprezzo e l’odio nei confronti delle persone omosessuali.
Alla luce di quanto sin qui detto, quindi, il contributo di uno psicologo riguardo al tema dell’omosessualità, può essere fondamentalmente di tre tipi: in primis, accogliere, comprendere, sostenere e supportare il difficile percorso che deve affrontare la persona omosessuale, con tutte le varie difficoltà legate all’accettazione e al segreto, il fare outing, l’elaborazione di sentimenti, emozioni o vissuti e la realizzazione di progetti per il futuro; in secondo luogo, offrire sostegno a genitori, parenti, partner di persone omosessuali, accompagnandoli nel percorso di accettazione, rielaborazione dei vissuti e presa di coscienza; ed infine, compiere una sorta di “missione” di divulgare corrette informazioni sull’omosessualità oppure trasmettere conoscenza per cercare di debellare i tantissimi pregiudizi tuttora presenti nella nostra società, in modo che anche le persone omosessuali possano vivere la propria vita sentimentale e sessuale con estrema naturalezza, gioia e serenità.