L’uomo, da sempre, attraverso una dimensione simbolica riesce a rappresentare aspetti inconsci della propria percezione oppure ad esprimere concetti che è impossibile comprendere completamente. Il simbolo, infatti, è spesso l’espressione più felice e completa che un’esperienza possa avere e per tale motivo secondo lo psicoanalista svizzero Carl Gustav Jung esso è “ la migliore formulazione possibile di un dato di fatto relativamente sconosciuto, la cui esistenza è riconosciuta necessaria ”. Caratteristica essenziale, quindi, è che un simbolo esprime sempre molto più di quanto si possa comunicare verbalmente, come ci insegna un antichissimo aforisma cinese secondo il quale “ l’immagine vale più di mille parole”. Per riuscire ad esprimere appieno le profondità di concetti attinenti al sacro o al profano, alla gioia o al dolore, al corpo o allo spirito, attingiamo dunque a tutto ciò che ci circonda, tra i metalli, nel regno animale, le figure geometriche, i numeri, la musica oppure attraverso i colori. Difatti, come scrive la psicoanalista junghiana Magda Di Renzo essi ” evocano esperienze primordiali, esprimono situazioni e stati d’animo attraverso una dimensione simbolica, parlano dell’inconscio ed esplicitano le caratteristiche di una cultura ”.
Fatte queste doverose premesse, quello mi appresto a presentare in questo scritto, è un viaggio attorno alla storia immaginale del colore viola, viaggio che ha inizio da una pianta e dall’ingegno di un uomo.
Da secoli il viola è ottenuto artificialmente tramite un particolare lichene della famiglia delle Roccellaceae, la Roccella tinctoria. Presente soprattutto sugli scogli e le rocce marittime del bacino mediterraneo, essa era nota già agli Antichi Egizi, utilizzata nel Vicino Oriente, citata da filosofi e naturalisti greci e conosciuta molto probabilmente anche dai Romani. Ma in Occidente misteriosamente non si hanno più notizie sino alla metà del 1200, per merito di un alchimista e tintore di panni di quel periodo, Giunta d’Alamanno, il quale nel 1228 partecipò alla sesta Crociata. Furono proprio le numerose crociate che si susseguirono nei secoli a costituire il punto di incontro tra la cultura alchemica araba ed il mondo latino e, dunque, a permettere a Giunta d’Alamanno di importare e custodire gelosamente dal vicino Oriente il segreto di produzione della Roccella Tinctoria. Stabilitosi a Firenze, egli riuscì a rendere la Città il più importante centro di produzione occidentale del suddetto colore e alla roccella tinctoria che usava nella sua bottega assegnò un curioso e particolare nome: “oricello”. Conosciuto in Spagna con il nome orciglio, in Francia orseille e in Inghilterra orchil (tutti evidentemente derivati dal termine fiorentino), l’origine della parola oricello è tuttora oggetto di dispute e congetture. Una tradizione moralizzante lo fa derivare dall’urina, poiché il colorante viola (orceina) si ottiene immergendo per alcuni giorni il suddetto lichene in una soluzione di ammoniaca, presente per l’appunto anche nelle urine. Ma al di là della evidente dissonanza tra la parola oricello con quella dell’urina, una soluzione ammoniacale la si poteva ottenere più semplicemente già in quel tempo con l’Hammoniacus sal, il sale di ammonio. Ma allora perché quel curioso termine?
Tenendo conto dei presupposti teorici della psicologia analitica, mi permetto, allora, di proporre una mia personale ipotesi, guidato anche dalla parole della psicoanalista svizzera Marie-Louise Von Franz che consiglia di “ascoltare ciò che un simbolo ha da dire.”.
Il nome oricello deriva da oricius, forma diminutiva del latino òra, che sta per estremità, orlo, margine o confine. E a ben guardare, attraverso i fenomeni naturali, i miti, i riti religiosi e le tradizioni popolari, l’oricello produce in effetti un colore di confine, una tonalità mediana. In natura, infatti, il viola si manifesta principalmente in alcune particolari tonalità del tramonto (nel mezzo cioè tra il giorno e la notte), nelle viole con la loro fioritura primaverile (a cavallo tra il freddo dell’inverno ed il caldo dell’estate), ed è collocato all’estremo dello spettro cromatico dell’arcobaleno, simbolico ponte tra cielo e terra. Inoltre il viola, ottenuto dalla mescolanza del rosso con il blu, è il colore della congiunzione tra il corpo, il terrestre e l’impulso del primo, con lo spirito, il celestiale e la quiete del secondo. Essendo un colore come scrive Jung “tra l’umano e il divino, l’unione di due nature”, è dunque la tonalità della coniunctio oppositorum e nelle sue gradazioni equilibrate si ottiene pertanto un colore mediano. Difatti, come sintesi tra l’irruenza del rosso con la tranquillità del blu, il viola diviene espressione di moderazione, senso della misura, di temperanza (in greco mediocritas, cioè giusto mezzo) nei tarocchi raffigurata da un angelo vestito di rosso e di blu che tiene in mano due vasi dello stesso colore fra i quali scorre un liquido risultato dal loro perpetuo scambio.
Come colore mediano è anche il colore delle mediazioni, il viola dei cardinali quali intermediari fra seculum ed aeternum e prerogativa dei medium, mediatori per l’appunto nel rapporto tra gli uomini e gli spiriti. E’ questo il viola del fantastico, del mistero e della magia, il colore dell’ametista, quarzo usato nell’occultismo fin dai tempi più antichi: in Grecia e nell’Antica Roma anelli di bronzo con un’ametista venivano portati come antidoti contro i malefici e secondo Plinio, appesa al collo e intagliata con il sole e la luna proteggeva dai sortilegi. Tra l’altro, in Spagna le streghe vengono tuttora chiamate bruja, simile al catalano bruixa, dal quale a sua volta deriva il termine sardo brúsa, che oltre a quello di strega ha il significato di “ linea, sponda, estremità o confine ”. Valenze magiche simili si ritrovano inoltre nella violetta, già adoperata a scopo divinatorio dai cavalieri della Tavola Rotonda oppure nella bellissima Tsi-ku, “la signora in viola” della mitologia cinese, alla quale si rivolgevano le donne per conoscere il loro futuro. In una metaforica congiunzione geografica di vissuti simili, così come le capacità magiche degli sciamani ecuadoregni Jivaro risiedono in un misterioso fluido viola (che essi “trasudano” dopo aver preso un estratto della loro pianta sacra (ayahuasca) ), anche nel piccolo paese di Molise, in provincia di Campobasso, sgorga una sorgente, Fonte Viola, nella quale, come narra la leggenda, una misteriosa maga era solita immergere la sua chioma per trasformarsi in nuvola attraverso un incantesimo.
Essendo dunque ”l’unione di due nature”, il viola appartiene anche alla relazione tra uomo e donna; mentre il rosso esprime maggiormente la pulsione, la potenza brutale dell’istinto, il viola sembra infatti manifestare l’elaborazione raffinata e relazionale dell’istintualità: se il rosso è il colore della passione, il viola sembra essere il colore di un aggraziato erotismo, nel quale l’immediatezza dell’impulso evolve verso raffinate forme di piacere e di legame. Nella mitologia greca, inoltre, Efesto si incorona di viola mammole per sedurre Afrodite, così come nel “Sogno di una notte di mezza estate” di William Shakespeare il dardo di Cupido cade proprio su una viola che “ le fanciulle lo chiaman fior d’amore ”. Non va dimenticato inoltre come gli strumenti musicali della viola e del violino, dai suoni delicati e seduttivi, in molte tradizioni popolari ricordino proprio il corpo di una donna e che con la connessa espressione “sviolinata” si intende proprio un tentativo, per lo più smaccato e maldestro, di seduzione.
Quando il legame tra due nature si fa estremo, inoltre, il viola manifesta anche vissuti di esperienza fusionale e di partecipazione intima. Non a caso nella filosofia indiana è associato al settimo chakra (Sahasrara), dove si fondono l’umano con il divino, così come dello stesso colore è foderato l’interno dell’oggetto più sacro delle tradizione ebraica, l’Arca dell’Alleanza, simbolico legame tra gli eletti e il loro Creatore.
Ma la natura complessa del viola, prima ancora che vissuti di ricomposizione e di completezza, esprime molto spesso anche “ unioni tra due nature “ contraddittorie, antitetiche e conflittuali, manifestando in tal caso il polo “negativo” delle valenze simboliche. Come scrive lo psicoanalista junghiano Claudio Widmann, la coniunctio oppositorum è qui intesa principalmente non come sintesi finale, ma come complessità iniziale che spinge alla trasformazione, spesso sofferta. Per il cristianesimo, ad esempio, il viola è il colore del periodo quaresimale, della passio christi, la passione vissuta da Cristo al momento di compiere il sacrificio sulla Croce, attraverso il quale unisce la sua natura umana alla divinità. In Giappone, inoltre, una particolare sfumatura del viola tendente al bluastro, l’edomurasaki, simbolizzava non a caso una marcata instabilità dei legami relazionali. Derivato dal latino viere, che significa legare o intrecciare, il termine viola appartiene anche a quei vissuti di sofferenza che si provano nel momento in cui il “legame tra due nature” diviene forzato e cruento, tanto che secondo alcuni linguisti è da ricercare in tali elementi l’etimologia dei termini “violare” e “violenza”.
Come colore intermedio, di confine, il viola appartiene inoltre a quel regno transitorio tra la vita e la morte, divenendo in tal caso tonalità funebre dalla valenza simbolica particolare: mentre il bianco funerario si riferisce maggiormente ad una mancanza provvisoria e quello nero è principalmente collegato al lutto senza speranza, nel viola sembra soprattutto connessa una relazione, una sofferta vicinanza psicologica tra il mondo dei vivi e quello dei morti. In Grecia, il croco (il fiore dal quale si ricava lo zafferano, attribuito alla maga Kirke, e Omero descrive il talamo nuziale di Hera e Zeus ricoperto di tantissimi fiori) veniva posto sulle tombe degli amanti, cosi come nell’Antica Roma, in prossimità dell’equinozio di primavera (20-21 marzo, momento in cui il giorno e la notte hanno la stessa durata), si svolgevano i dies violaris, i giorni delle viole, dedicati alla commemorazione dei defunti che prevedevano la copertura delle tombe con fiori di viola. E se nei secoli addietro, colore di lutto con le medesime valenze lo era in Francia, Turchia e Cina, si comprendono meglio le parole dello studioso dei colori Eckhart Heimendahl quando scrive: “Nessun colore come il viola dimora così visibilmente nella sfera intermedia tra la vita e la morte”.
Questo è quanto ho da dire sulla complessità del viola, del suo “legame tra due nature” che può essere tanto relazionale che conflittuale. E a conclusione di questo scritto, mi preme sottolineare come esso, lungi dall’essere una mera trattazione estetica, abbia invece una forte valenza pratica. Al riguardo, mi vengono alla mente alcune parole di Jung: “Se l’analisi è condotta onestamente si arriva a un problema insolubile, che non ha vie d’uscite. Che fare a questo punto? Nessuno sa affrontarla, nessuno sa che fare. Ebbene andate a dormire. Pensate al vostro problema. Vedete che sogni fate. Forse il Grande Uomo, l’uomo che ha due milioni di anni, parlerà.”. E proprio sui sogni, mentre solamente negli ultimi decenni il mondo psicoanalitico scopre una loro componente creativa, già nel lontano 1928 Jung utilizza queste parole: “Dobbiamo trattare i sogni come un’opera d’arte; non in modo logico e razionale ma con un certo ritegno e una certa delicatezza. E’ l’arte creativa della natura a creare il sogno, e quindi dobbiamo essere alla sua altezza quando tentiamo di interpretarlo” .
E così, se le nostre immagini oniriche e le nostre fantasie saranno colorate di viola, per comprenderne appieno il messaggio, oltre a quelle personali, varrà la pena conoscere le associazioni collettive o, come scrive Marie-Louise Von Franz, le associazioni dell’umanità.